LA SCRIMINANTE DEL RISCHIO CONSENTITO – PARTE SECONDA

1. INTRODUZIONE

Lo scorso 2 marzo abbiamo introdotto la nozione di “rischio consentito”, spiegando come si tratti di un istituto parzialmente mutuato dal diritto penale e generalmente ricondotto alla categoria delle cause di giustificazione (o “scriminanti”).

La ricorrenza della scriminante elide infatti la rilevanza penale degli eventi lesivi occorsi durante la pratica sportiva, dai quali possono residuare (al più) eventuali profili di responsabilità sotto il lato squisitamente tecnico.

Fatte queste premesse, occorre considerare che la natura e l’operatività della scriminante rischiano di essere totalmente ridisegnate per effetto della recente sentenza della Cassazione, sez. IV, n. 3284/2022, la quale ha fornito delle inedite chiavi di lettura per l’individuazione della linea di confine tra illecito sportivo ed illecito penale.

Analizziamola insieme.

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2. LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 3284/2022

Il provvedimento in oggetto è stato emesso in definizione del giudizio di legittimità instaurato avverso una sentenza pubblicata dalla Corte d’Appello di Firenze in data 21 gennaio 2020, con la quale quest’ultima ha confermato la responsabilità del sig. Luca Panzani ai sensi dell’art. 590 c.p. (lesioni colpose), già riconosciuta in primo grado con sentenza del Tribunale di Lucca.

Durante una partita amatoriale di calcio a 5 il Panzani si era reso autore di durissimo “tackle” ai danni del sig. Lorenzo Parenti, cagionandogli fratture multiple e l’impossibilità di attendere alle ordinarie occupazioni per una durata superiore ai 40 giorni.

Il provvedimento tocca una serie di punti di interesse e risulta scomponibile in tre parti.

Nella prima parte la Corte prende le mosse definendo la scriminante in oggetto che, attraverso un richiamo alla propria giurisprudenza sul punto, identifica in una “causa di giustificazione, non codificata, in base alla quale per il soddisfacimento dell’interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva per il potenziamento fisico della popolazione, come tutelato dallo Stato, è consentita l’assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all’integrità fisica”. Tale esimente, prosegue la Corte, “presuppone in ogni caso che non sia travalicato il dovere di lealtà sportiva nel senso che devono essere rispettate le norme che disciplinano ciascuna attività e che l’atleta non deve esporre l’avversario ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio”.

Secondo l’orientamento di legittimità l’operatività della scriminante sarebbe quindi subordinata al rispetto di due controlimiti:

  • il formale rispetto delle regole disciplinanti la pratica sportiva;
  • la mancata esposizione dell’avversario (e quindi della parte lesa) ad un rischio superiore a quello ragionevolmente prevedibile e quindi tollerabile, tenuto conto delle caratteristiche della pratica sportiva di riferimento.

Nella seconda parte la Suprema Corte passa ad analizzare l’ipotesi in cui la lesione dell’integrità fisica si accompagni ad una violazione della regola tecnica.

In questo caso la Corte sostiene che la rilevanza penale della condotta debba rintracciarsi nei casi in cui la violazione della regola tecnica, ancorché intervenuta nello sviluppo della competizione sportiva, sia esclusivamente preordinata al cagionamento della lesione all’integrità fisica, rappresentando quindi la violazione della regola tecnica un mero “pretesto” per il conseguimento del risultato illecito. Di contro, non rileverebbe sotto il profilo penale la condotta posta sì in violazione della regola sportiva, ma esclusivamente preordinata al conseguimento del risultato agonistico.

In questo secondo nucleo di ipotesi dovrebbe indagarsi in ordine all’elemento psicologico del reo al momento della violazione, individuandosi nel dolo di cagionare la lesione il discrimine tra la rilevanza e l’irrilevanza penale della condotta.

Nella terza parte, con un evidente revirement, la Corte prende parzialmente le distanze dall’orientamento di cui sopra.

In particolare, la Corte sostiene come il formale rispetto della regola sportiva, tale da determinare la liceità della condotta sotto il profilo tecnico, non possa di per sé escludere ex ante l’illiceità della condotta sotto il profilo penale. Al contempo, la Corte esclude che la rilevanza penale della condotta possa ricondursi alle sole ipotesi di dolosa e pretestuosa violazione della regola sportiva.

La ragione dovrebbe ricercarsi nella non sovrapponibilità della responsabilità sportiva a quella penale, “essendo la prima disciplinata dai rispettivi regolamenti, che definiscono i limiti della correttezza del gioco, la seconda potendo sussistere solo quando l’evento lesivo derivi da una condotta dolosa o colposa dell’agente”. Una condotta lecita sotto il profilo sportivo potrebbe quindi essere illecita sotto quello penale, e viceversa.

La rilevanza penale della condotta dovrebbe quindi ricercarsi nella violazione dei generali canoni di diligenza, prudenza e perizia di cui all’art. 43 c.p., che imporrebbero all’atleta un generale dovere di astensione dall’integrazione del gesto tecnico, tanto nelle ipotesi di violazione quanto di rispetto della regola tecnica, quando il cagionamento della lesione rappresenti conseguenza ragionevolmente prevedibile del gesto medesimo.

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3. PROFILI DI CRITICITA’

Con questo ribaltamento la Cassazione ridisegna di fatto i margini di operatività della scriminante del rischio consentito, imponendo agli atleti il rispetto di un generale ed incondizionato obbligo cautelare.

Ad avviso dello scrivente, l’impostazione in oggetto presenta tuttavia due rilevanti profili di criticità.

In primo luogo, l’impostazione in oggetto risulta difficilmente praticabile negli sport a contatto necessario e, in particolare, negli sport di combattimento.

Se in tali sport il risultato sportivo consegue (generalmente) alla sottomissione e/o “demolizione” dell’avversario sul piano fisico, come può ragionevolmente pretendersi dall’atleta di conseguire detto risultato imprimendo un grado di forza “non eccessivo” o che, comunque, “non vada oltre lo stretto necessario” per il conseguimento della vittoria?

Si tratta di una soluzione evidentemente impraticabile in quanto, considerata la natura di tali sport, a prescindere dal contesto amatoriale o professionistico di riferimento, è impossibile pretendere dall’atleta il rispetto di un generale ed universale dovere di prefigurazione dell’evento lesivo.

In secondo luogo, un’impostazione di questo tipo presupporrebbe inoltre un’analisi omnicomprensiva dei singoli contesti di svolgimento delle manifestazioni sportive, che tenga conto del grado di preparazione degli atleti, della loro età, esperienza o del tipo di competizione nella quale sono coinvolti, onde verificare se l’evento fosse quindi da questi ragionevolmente prevedibile nel caso di specie.

Il rischio di incappare in potenziali disparità di trattamento sarebbe evidentemente ingente e la concreta praticabilità di una simile analisi sarebbe quanto mai dubbia.

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4. CONCLUSIONI

Fatte queste considerazioni sulla scriminante del rischio consentito, possiamo ora tirare le somme sul caso di Edoardo Zattin.

Premesso che le seguenti sono considerazioni esclusivamente personali, nonché aprioristiche, in quanto i fatti sono ancora in corso di accertamento, ritengo che la recente impostazione della Suprema Corte possa avere un peso determinante in ordine all’eventuale giudizio di colpevolezza dell’imputato.

Se si dà per scontato che l’evento morte è incorso nel regolare svolgimento della pratica sportiva, fatto che, si ricorda, è ancora da dimostrare, il giudizio di responsabilità penale dell’imputato sarà subordinato all’accertamento del rispetto o del mancato rispetto della regola cautelare di cui si è detto ai punti precedenti.

In questo senso, ove si rilevasse che la morte è stata conseguenza diretta dello svolgimento di una (eccessivamente) intensa sessione di sparring, la giovane età del soggetto leso, il differente livello di esperienza rispetto al reo, il contesto di svolgimento dei fatti (ovvero una sessione di allenamento e non un torneo), potrebbero tutti costituire punti pesantemente deponenti a sfavore dell’imputato, dal quale ci si sarebbe quindi dovuto attendere un atteggiamento più “prudente”.

Ad ogni modo, come già detto, trattasi di valutazioni meramente aprioristiche, rimaniamo quindi in attesa di conoscere quelli che saranno gli sviluppi della vicenda

Milano, 23 marzo 2024

Avv. Andrea Melis

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