IL CALCIATORE E LA SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ ALLA MANSIONE SCENARI E POSSIBILI CONSEGUENZE

1. PREMESSA: I CASI DI EDOARDO BOVE E CHRISTIAN ERIKSEN

Negli scorsi giorni gli appassionati del mondo del pallone (e non solo) hanno appreso dello sfortunato episodio che ha riguardato il centrocampista classe 2002 della AC Fiorentina Edoardo Bove.

In occasione dello scorso turno di campionato, valevole per la 14° giornata della Serie A TIM, intorno al minuto 20’ del match tra Fiorentina ed Inter il calciatore ha accusato un malore, accasciandosi al suolo privo di sensi. Tempestivi sono stati i soccorsi da parte del personale in campo, calciatori delle due squadre compresi, e l’atleta è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Careggi di Firenze, ove risulta attualmente ricoverato.

Fortunatamente, da quanto trapela dalle fonti più vicine al calciatore pare che le sue condizioni siano in rapido e netto miglioramento, con esclusione di danni cardiaci e/o neurologici permanenti.

Immagini forti quelle cui hanno assistito gli spettatori della partita (scrivente compreso), che per dinamiche e svolgimento dei fatti ricordano per certi versi quanto occorso al calciatore della nazionale danese di calcio, Christian Eriksen, in occasione del match disputatosi tra Danimarca e Finlandia durante i campionati europei di calcio del 2020.

Anche in quel caso la situazione si è fortunatamente risolta per il meglio, sebbene in conseguenza di tale episodio il calciatore, al quale è stato impiantato un defibrillatore sottocutaneo, sia stato costretto a risolvere consensualmente il suo rapporto con l’Inter, non consentendogli le normative italiane di ottenere l’idoneità per lo svolgimento della pratica sportiva agonistica.

Quanto successo ad Edoardo, al quale faccio i miei più sinceri auguri di una pronta ripresa sia personale che sportiva, mi offre lo spunto per effettuare una disamina della disciplina sportiva in tema di sopravvenuta inidoneità dell’atleta alla prestazione sportiva, analizzandone i riflessi sul piano dei rapporti contrattuali con la società d’appartenenza.

Per fare questo prenderemo le mosse analizzando l’istituto civilistico della sopravvenuta impossibilità della prestazione, per poi inquadrarne i risvolti applicativi in ambito di lavoro subordinato e di lavoro subordinato sportivo.

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2. L’IMPOSSIBILITA’ DELLA PRESTAZIONE NEL CODICE CIVILE

Ai sensi dell’art. 1256 c.c. l’impossibilità sopravvenuta della prestazione costituisce motivo di estinzione del rapporto obbligatorio. La stessa ricade tra le ipotesi di c.d. estinzione non satisfattiva dell’obbligazione, ossia quei casi in cui all’estinzione del rapporto non consegue il soddisfacimento dell’interesse del creditore.

La norma rientra nella parte del Codice civile relativa alle obbligazioni in generale, ossia il Titolo I del Libro IV del codice. La sua applicazione in ambito contrattuale è oggetto di disciplina nel successivo Titolo II e, nello specifico, agli artt. 1463 e 1464 c.c., rispettivamente disciplinanti le ipotesi di impossibilità totale e parziale della prestazione.

Con riferimento alla prima, l’art. 1463 c.c. prevede la liberazione delle parti dall’obbligo di eseguire le prestazioni convenute ed il diritto per la parte non inadempiente di ripetere la prestazione che abbia nel frattempo già eseguito.

Con riferimento alla seconda, l’art. 1464 c.c. prevede il diritto della parte non inadempiente di ottenere una riduzione proporzionale della prestazione dovuta o, qualora la riduzione non corrisponda al suo interesse, di recedere dal rapporto negoziale.

Come evincibile dalla formulazione delle succitate norme, l’istituto presuppone che l’impossibilità di eseguire la prestazione sia fatto successivo rispetto all’insorgere dell’obbligazione. Inoltre, secondo i più recenti arresti giurisprudenziali in materia, l’impossibilità non deve essere valutata sotto il piano squisitamente materiale, bensì anche su quello dell’obbligo di diligenza ascrivibile in capo alle parti ai sensi dell’art. 1176 c.c.[1].

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3. IL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ ALLA MANSIONE

Come detto in precedenza, l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione ha trovato collocazione anche in ambito giuslavoristico.

Nello specifico, secondo consolidata giurisprudenza sia di legittimità che di merito, l’impossibilità sopravvenuta può costituire motivo di licenziamento del lavoratore per giustificato motivo oggettivo[2].

Secondo quanto previsto dall’art. 41, comma V, D.lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro – nell’esercizio della c.d. sorveglianza sanitaria – è tenuto a verificare l’idoneità del lavoratore all’esercizio della mansione specifica, giudizio effettuato tramite il medico competente e che può concludersi con quattro esiti differenti:

  • idoneità alla mansione;
  • idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni (il lavoratore può quindi eseguire la prestazione, previa adozione degli opportuni accorgimenti);
  • inidoneità temporanea (lo svolgimento della prestazione è quindi subordinato al positivo superamento di successiva visita);
  • inidoneità assoluta.

Nei casi più drastici, ovvero quelli di inidoneità assoluta e permanente alla prestazione, l’art. 42 del Decreto fa salvo, ove ciò sia possibile, il dovere del datore di lavoro di adibire il prestatore a mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte o, in difetto, a mansioni di livello inferiore, con conservazione del trattamento economico corrispondente alle mansioni di provenienza.

La giurisprudenza si è altresì spinta sino al punto di imporre al datore l’adozione di soluzioni ragionevoli – rectius, accomodamenti ragionevoli[3] – finalizzate a consentire la conservazione del posto di lavoro del dipendente, qualificando quale extrema ratio il recesso dal rapporto di lavoro. Sul punto si segnala la recente nonché interessante pronuncia della Corte di Cassazione con l’Ordinanza 12 aprile 2024, n. 9937, con la quale la Suprema Corte non solo ha ribadito l’obbligo del datore di lavoro di adibire (sempre, ove possibile) il dipendente a mansioni equivalenti/inferiori ed eventualmente di adottare le succitate soluzioni ragionevoli, ma si è altresì spinta sino al punto di liberare il lavoratore dall’onere di indicare, in sede di impugnazione giudiziale dell’eventuale licenziamento, le mansioni equivalenti/inferiori cui a suo dire lo stesso avrebbe potuto essere adibito.

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4. LA DISCIPLINA IN AMBITO CALCISTICO

Tornando adesso all’interrogativo che ci siamo posti all’inizio del presente elaborato: è quindi possibile licenziare il calciatore divenuto inidoneo alla prestazione sportiva?

Per rispondere a tale domanda occorre premettere che, come l’abrogata Legge n. 91/1981, l’attuale Decreto legislativo n. 36/2021 prevede una pressocché totale disapplicazione della disciplina ordinaria in tema di licenziamento del lavoratore[4].

Trattasi elemento discendente dalla natura autonoma e derivata dell’ordinamento sportivo.

Nonostante questo, la risposta alla domanda è positiva.

Gli accordi collettivi di categoria dimostrano infatti di aver recepito l’orientamento descritto ai punti che precedono, contemplando la possibilità delle società sportive di recedere dal rapporto nelle ipotesi di inidoneità definitiva del calciatore alla prestazione sportiva.

Si prenda come esempio l’attuale Contratto collettivo tra AIC (Associazione Italiana Calciatori), FIGC e LNP A (Lega Nazionale Serie A)[5], il cui art. 15, al comma I, descrive dapprima il concetto di “inidoneità del calciatore”, identificandola nella “condizione morbosa (…) che ne rende totalmente impossibile la prestazione lavorativa a titolo definitivo o temporaneo”, per poi prevedere al successivo comma VI, in caso di inidoneità definitiva, il diritto della società “di richiedere immediatamente al CA la risoluzione del Contratto”.

Nonostante la rigidità della norma, volta a non sacrificare oltremodo l’interesse della società innanzi all’oggettiva e definitiva impossibilità di usufruire delle prestazioni del tesserato, occorre considerare come l’ipotesi di licenziamento dell’atleta per la causale in oggetto non sia particolarmente corrente nella prassi (nel già citato caso di Christian Eriksen, come detto, si addivenne ad una risoluzione consensuale del rapporto).

Trattasi infatti di rimedio che, sebbene formalmente ed astrattamente legittimo, porterebbe in ogni caso con sé l’alea del giudizio innanzi alla Commissione Arbitrale, oltre che esporre la società interessata al biasimo mediatico, sortendo un’isperato effetto boomerang sull’immagine della stessa.

Ferma quindi l’analisi esclusivamente tecnica operata nel presente elaborato, la speranza è quella che Edoardo si ristabilisca al più presto, a prescindere dai risvolti che questa sfortunata vicenda avrà sulla sua carriera professionale, confidando che anche sotto questo aspetto non vi siano particolari conseguenze e che il giovane ritorni nell’immediato ad illuminare il centrocampo della Fiorentina.

Milano, 5 dicembre 2024

Avv. Andrea Melis

5. RIFERIMENTI


[1] L’impossibilità si ritiene infatti sussistente anche nell’ipotesi in cui la maggior gravosità sopravvenuta della prestazione non possa essere superata con il grado di diligenza richiesto al contraente ex art. 1176 c.c.

Ai fini dell’operatività dell’istituto non è quindi necessaria l’assoluta impossibilità della prestazione sul piano materiale, così come non è sufficiente la mera maggior gravosità della prestazione stessa.

[2] In tal modo viene definito dall’art. 3, parte seconda, Legge n. 604/1966 il licenziamento intimato per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

[3] Per “accomodamenti ragionevoli” si intende quell’insieme di soluzioni riorganizzative della realtà aziendale che, al costo di un ragionevole sacrificio dell’interesse (anche eventualmente patrimoniale) del datore, consentano a quest’ultimo di garantire al dipendente la conservazione del posto di lavoro senza che ne consegua un apprezzabile nocumento alle ragioni dell’impresa.

[4] Trattasi nello specifico dell’art. 26 comma I del Decreto, il quale recita: “Ai contratti di lavoro subordinato sportivo non si applicano le norme contenute negli articoli 4, 5, e 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, negli articoli 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, negli articoli 2, 4 e 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nell’articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 nell’articolo 2103 del codice civile”.

[5] Si ricorda al riguardo che le leghe professionistiche svolgono funzione di rappresentanza dei sodalizi sportivi in sede di contrattazione collettiva.

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